martedì 13 dicembre 2022

Una parentesi nel viaggio (parte terza): il rientro a Dushambe

Un villaggio composto da quattro case in croce e una ventina di abitanti deve per forza contenere al suo interno un certo grado di parentela tra i vicini. E' per questo che la ragazza che ci ha ospitati dopo il teatrino in piazza era la nipote da parte di padre della signora che aveva cercato di derubarci chiedendo 20 euro a testa per una notte. E io questo potevo immaginarlo. Dico solo che alla giovane ragazza, di nome Jumagul, è stato riportato un colorito racconto su quanto avvenuto poco prima di incontrarla, che comprendeva anche un epiteto non proprio simpatico di vecchia megera alla sua cara nonna.

Detto ciò, il mattino successivo ci dirigiamo verso nord, e non potendo proseguire in bici, decidiamo di lasciarle in custodia alla nostra gentilissima ospite, con la promessa che saremmo tornati il giorno seguente per recuperarle e togliere il disturbo.

La valle del Bartang, come già accennato prima, si sviluppa in seno all'omonimo fiume che attraversa le montagne fino al lago di Karakul, qualche centinaia di km più avanti, a confine con il Kyrgystan. 
I villaggi principali si snodano lungo l'ansa per 20km prima di arrivare nell'entro terra, per poi lasciare spazio solamente alla natura desertica delle montagne. La nostra destinazione si trovava dall'altra parte del fiume, raggiungibile attraverso un ponte tibetano a pochi metri dall'acqua. 
La storia racconta di come un'inondazione qualche anno prima abbia distrutto il primo villaggio che si trovava attraversato il ponte, per cui ci fu una conseguente ricostruzione di questo a un'altra ventina di chilometri addentrandosi verso est.






Il perchè si decide di andare a far visita a questi posti, trova una sua risposta intrinseca nella natura stessa di chi ha progettato di perdersi nei luoghi. Un villaggio totalmente isolato dal mondo, collegato alla vita al di fuori dalla montagna da un percorso sentieristico e un ponticello tibetano, deve per forza celare una natura affascinante, affascinante proprio perchè non la si può immaginare con gli occhi di chi una natura del genere non la conosce ed è per questo che è necessario abbandonare ogni sovrastruttura occidentale per immergersi in certe esperienze.

Il villaggio che sto descrivendo non ha nemmeno un nome, o meglio, ne ha molti, ognuno lo chiama e descrive a modo suo. E' composto da 5 abitazioni in pietra e circondato da una miriade di alberi di albicocco, tanto che per me rimarrà sempre il villaggio delle albicocche. 
Qui il pasto principale consiste appunto di albicocche e qualche prodotto proveniente sempre dalla terra, quali cipolle, patate, ortaggi stagionali; non si trova nemmeno del sale, tanto che quello che ho mangiato aveva un sapore di dolciastro. 













Non troviamo difficoltà nell'essere ospitati in cambio di notizie riportate dall'esterno, ma ho notato anche non troppa curiosità nel conoscere i risvolti politici della propria terra; forse se si è deciso di vivere così isolati dal mondo il motivo sta proprio nel non voler conoscere il mondo. 
Sembrerebbe quasi un micro universo all'interno del nostro più grande, ma inquinato universo; e il chiedermi se potrei mai vivere in un determinato modo mi ha accompagnata negli attimi prima di prendere sonno, con l'ovvia e scontata risposta che non mi è possibile farlo, e probabilmente il luogo in cui nasci determina inesorabilmente il destino dei tuoi interessi, e i miei sono totalmente compromessi dal fatto che gli stimoli ricevuti da un mondo occidentalizzato non coincidono con quelli di un piccolo mondo antico, e quindi ci dormo su, sapendo che l'indomani mi avrebbe aspettato una lunga scarpinata per recuperare la bici e la folle corsa per il rientro a Khorogh.

Il giorno seguente, arrivati alla stazione dei taxi di Khorogh, con non poche difficoltà rilegate al fatto che l'estate del 2022 non aveva visto questo incremento di turismo che il Tajikistan si sarebbe aspettato dopo due anni di chiusura a causa della pandemia, siamo riusciti a contrattare un passaggio alla capitale, stipati in una macchina con altre 8 persone, per un viaggio di rientro di 15 ore e una sosta, anzi tre, perchè due volte li ho obbligati ad accostare per aver rimesso l'anima, visto che il mio amore per i viaggi in macchina si misura attraverso il mio malessere.




P.s.: la mia bici, già provata da tutta la strada non adatta alla sua geometria, si è finita di disintegrare durante il viaggio in macchina, ed io ero consapevole, ma non sono riuscita a convincere l'autista che forse non era proprio un incastro perfetto quello che stava pazientemente effettuando sopra il tettuccio della macchina 




Non è stata casuale la scelta di voler partire dalla fine, per raccontare di questo viaggio nel centro dell'Asia. 
Perchè tutte le cose che racconto, sul partire scarichi da pregiudizi, del viaggiare in punta di piedi, del perdersi nei luoghi, del lasciarsi trascinare dalla casualità degli eventi e degli incontri, non sono obiettivi che si raggiungono nell'immediato, io ho bisogno di adattarmi, ogni volta che decido di partire, di essere prima di tutto sicura che le mie scelte ogni singolo momento del viaggio siano quelle che mi permetteranno di non sentirmi in alcun modo scoperta, e ogni tanto posso sbagliare, ma l'importante per me è sempre tornare a casa diversa da prima, ancora più convinta che viaggiare è necessario, altrimenti tutto questo che senso avrebbe?

lunedì 12 dicembre 2022

Una parentesi nel viaggio (seconda parte): nella valle del Bartang

 Ci sono due strade che da Dushambe portano a Khorogh.

C'è la strada che si snoda a nord e attraversa un passo a 3.000m, dislocata su dei tornanti che salendo lentamente vanno a morire a ridosso di piccoli villaggi, trasformando l'asfalto in cumuli di rocce ghiaiose, simili a quelle del letto di un fiume, dove a volte la stessa strada si fa talmente stretta e tortuosa da permettere il passaggio solamente a dorso di un asino, che tra l'altro è l'unico mezzo che gli abitati utilizzano per spostarsi tra un villaggio e l'altro. Se si decide di proseguire per questa strada si deve tener conto che qua il tempo sembra essersi fermato al primo dopoguerra: non c'è luce, non c'è gas, c'è solamente l'acqua potabile che sgorga dai torrenti che dalla cima del passo a valle rendono l'area ricca di coltivazioni stagionali; gli abitanti dei piccoli villaggi trascorrono le giornate lavorando i campi e pascolando il bestiame, nessuno si aspetterebbe mai che possano essere minimamente in contatto con il mondo fuori da quelle montagne, e infatti è così che si ritrovano a parlare un idioma tra il russo e il persiano che ha avuto modo di definire ancor di più questo gap temporale con il resto del mondo. E' la strada che ho scelto di percorrere, una scelta che poco è stata pensata, ma che come le cose poco studiate ha portato con se enormi soddisfazioni, bellissimi ricordi, ed esperienze costruttive.

Sempre la meravigliosa cartina disegnata a mano per voi per semplificare e capire meglio la geografia





Poi c'è la strada che passa da sud, che non si può definire propriamente asfaltata, ma che comunque rimane percorribile dalle jeep che fungono da mezzo di trasporto per chiunque abbia bisogno di raggiungere la capitale o spostarsi verso le montagne dell'est. Qua, anche se non si può propriamente parlare di cittadine, ma più di centri abitati, abbiamo una rete stradale che comunque li porta verso l'esterno e fa in modo che non rimangano del tutto isolati.

Le jeep che passano a sud, attraversano la Pamir da Dushambe a Chorogh impiegando un tempo medio di 15 ore per effettuare 500km di strada, in relazione a questo è possibile interpretare il significato di asfalto e quanto relativo possa essere l'aggettivo buono in riferimento alla condizione del manto, ma rimane comunque l'unica opzione per percorrere in macchina un tratto di strada che a nord sarebbe impossibile attraversare.

E' proprio alla fine di queste 15 ore di strada che stremati e confusi arrivano i miei nuovi compagni di avventura.


Capisco immediatamente che il loro viaggio in auto è stato dettato più da una necessità che da una scelta. Ogni speranza di un confine riaperto è infatti svanita nel momento in cui mi comunicano che non gli è stato concesso l'agognato permesso per attraversare la regione autonoma, o meglio gli è stato concesso temporaneamente per una settimana, tempo insufficiente a percorrere l'intero tragitto in bici e rientrare senza avere problemi con le autorità locali. Se per un attimo l'adrenalina era tornata in circolo e in un nano secondo avevo pensato alla possibilità di rimettermi in viaggio a completamento del progetto iniziale, altrettanto velocemente questa possibilità si è spenta una volta capito che 15 ore di macchina non si fanno per scelta, ma per necessità, quella di non sprecare la possibilità di vedere seppure in maniera differente da come la si era pensata quei posti che non sono di passaggio e che rimangono nascosti al turismo dei più.


Nonostante questo, non c'è voluto molto a convincermi che forse il Tajikistan poteva ancora offrimi un'ultima esperienza, in fondo era ancora presto per chiudere il cerchio e tornare alla capitale.

Quella sera stessa a cena, si parla di una possibile escursione nella Valle del Bartang, poco distante da noi, così decido di unirmi ai miei nuovi amici, che la mattina seguente avrebbero caricato le bici per avventurarsi in un trail di qualche giorno.

Che cosa è il Bartang?

Il Bartang è una valle che attraversa la regione nord est del Tajikistan, è attraversata da un sentiero che collega l'area di Khorogh con la regione di Karakul, praticamente è la strada che si biforca dalla Pamir e passa attraverso le montagne che vanno a morire nell'altopiano.

Il Bartang è una vallata talmente remota ed isolata che talvolta la strada si sgretola alla merce degli agenti atmosferici. Ogni forma di spazio antropizzato si perde alla fine di 50km di strada che si collegano alla principale e che fiancheggiano un fiume.







Pochissime parole e mi ritrovo già intenta a rifare i bagagli per il giorno seguente, in fondo nulla è mai concluso fin quando non ci si ritrova seduti sull'aereo di ritorno.

Non nascondo che io non sono propriamente la compagna di viaggio ideale, e l'idea di dover passare tre giorni in compagnia di altre due persone sconosciute, se inizialmente mi aveva esaltata e caricata di nuova energia, la mattina della partenza avevo già smorzato l'entusiasmo con la paura di non trovarmi a mio agio in una determinata situazione. Ma in fondo tre giorni su cinque settimane di viaggio non sono un'enormità, e in qualche modo mi adatto sempre.

Peccato che alla fine devo dar ragione alla mia natura di orso solitario.

Percepisco immediatamente che il testosterone nell'aria ha dei livelli esagerati e che quella che per me era una gita fuori porta si trasforma subito in una gara fuori pista. Cerco inutilmente di smorzare i toni, dal momento che sento parlare di km/h, tempi, pause programmate al minimo dettaglio, garmin che segnano e scandiscono la giornata; ovviamente con scarsi risultati, e trovandomi in netta minoranza decido allora di star zitta e far decidere al caso il destino di questo incontro.

Ci sono milioni di motivi per cui parto in solitaria, uno tra i tanti è di poter decidere per me quello che voglio, senza togliere a nessun altro la possibilità di fare la propria esperienza per come la si è pensata, e siccome alla fine di tutto non provo mai a far brillare le mie volontà, finisce sempre che faccio ciò che gli altri decidono per me, e poi ci rimango male. Ma ciò che più non tollero al mondo è la presunzione e il grado di approccio ad una cultura diversa dalla mia talmente tanto superiore da risultare maleducato, ma non voglio concentrare il racconto su quanto quello che è successo mi abbia messa in imbarazzo.

Poche chiacchiere e ritmo serrato arriviamo al bivio che poi si addentra nella valle. Oramai col sole quasi al tramonto, e stanchi dall'aver macinato più di 100km, decidiamo che è il caso di cominciare a cercare un posto per la notte. Arrivati all'ultimo centro abitato prima di passare sull'altra sponda del fiume e non trovare più nulla ci fermiamo a cercare quella che una vecchia guida della Lonley Planet, posseduta dai due, indicava come una guesthouse. Certo, la guida era datata, ma nessuno si sarebbe aspettato che la gente del posto potesse lucrare non poco sul nostro bisogno di un posto dove dormire e mangiare. Veniamo accolti festosamente e fastosamente come tre polletti da spennare all'interno dell'abitazione da quella che sembrava la padrona di casa, una signora di mezza età, molto affabile, dai modi imprenditoriali, che agitava un intruglio di zuppa che cuoceva su una vecchia stufa a legna. Ci vengono chiesti 20 euro a testa per una cena e un materasso a terra. Trattandosi dell'unica abitazione segnalata sulla guida la signora aveva fatto i suoi conti, ma io avevo fatto anche i miei, e sinceramente ero disposta a pagare, ma per un prezzo onesto, che non superasse i 5 euro a testa, comunque un'enormità per i loro affari. Agito subito la testa e faccio cenno ai due, che sembravano ben disposti a pagare, di non accettare, perchè va bene tutto, ma farsi derubare anche no. 

Siamo stati evidentemente presi contro piede: il sole al tramonto, l'ultimo villaggio prima del nulla, nessun negozio disponibile, unica casa che si prestava a guesthouse in vena di affari. Avanzo per cercare di contrattare un prezzo più onesto per l'ospitalità, ma vengo subito scavalcata da uno dei due, che dopo essersi vantato delle sue esperienze in lungo e in largo per il mondo, mi chiede di farmi di lato perchè ci avrebbe pensato Lui. Sorrido, perchè so già che sarà una battaglia persa, ma decido di farlo provare, tanto avevo già in mente il piano B. La signora agita la testa e in modo secco e deciso risponde con un bel niet. Prendo per il braccio il mio amico e gli chiedo di non insistere, perchè sarebbe stato solamente tempo perso ed energie sprecate, gli chiedo invece di non disperare e di fidarsi e far fare a me la prossima mossa.

Introduco quindi la mia tecnica assodata di approccio all'ospitalità: chiedo ai miei compagni di sederci per terra sullo spiazzo principale del villaggio, proprio quello dove poco prima eravamo stati assaltati da un'orda impazzita di bambini, e aspettare non più di cinque minuti. La mia proposta non viene accettata volentieri, per cui chiedo ai due di farsi un giro e continuare a cercare, che alla fine distribuendo le energie prima o poi qualcuno ci avrebbe accolti.




Devo dire che la mia tecnica è ormai talmente tanto strutturata nel tempo da essere diventata infallibile. Non credo fossero passati nemmeno pochi secondi, quando si avvicina un signore, cerco di comunicare in una lingua dei segni piuttosto sgrammaticata, ma efficace, e mi fa cenno di aspettare un attimo. Vedo già i due amici che incuriositi da quello a cui avevano assistito decidono che forse la mia idea non era poi tanto malvagia e quindi si avvicinano. Pochi minuti dopo, mentre ormai divenuti attrazione principale del villaggio ci prestavamo alla goffa comunicazione a gesti, lingua ufficiale del viaggio, arriva il signore al quale avevo chiesto poco prima ospitalità accompagnato da un'altra signora. Faccio segno ai miei amici di non interferire nella comunicazione al fine di non far percepire l'alone di disperazione che trasudava dai nostri gesti ed offro alla signora 15 euro totale in cambio di una cena e un materasso a terra dove dormire la notte. Alla vista dei soldi tagiki il linguaggio corporale della signora induce a sperare in un determinato si certo, ma purtroppo lei non ha sufficiente spazio per ospitare tre puzzolenti individui in casa sua, per cui ci chiede di attendere un secondo perchè avrebbe di certo trovato chi poteva farlo al suo posto. Mi chiede espressamente di non seguirla, ed io ferma non faccio altro che guidarla idealmente col pensiero e sperare che arrivino buone nuove, anche perchè quella era l'ultima possibilità per poter mangiare qualcosa in quella giornata.

In questa foto rubata, l'attimo in cui la cara signora spiega alle donne del villaggio la nostra problematica, facendo riferimento al fatto che avremmo offerto un'indenne somma di denaro a riscatto degli avanzi del giorno e una stanza al chiuso. Uno sfuggente sguardo alle nostre gambe stanche e zozze e subito viene chiamata una giovane ragazza che con un sorriso e tanta voglia di comunicare ci fa cenno di seguirla verso casa.



Una specifica dovuta: non mi è mai capitato di dover pagare per essere ospitata e sono sicura che con un altro approccio e molta più empatia avremmo ottenuto lo stesso trattamento senza dover fare ricorso ai beni materiali. Poi la decisione di lasciare un piccolo contributo economico a chi ha aperto la sua casa e condiviso il suo cibo è sempre più che giusta, ma è più naturale, passa in secondo piano e non inquina il tipo di relazione che si viene a creare, anche solo per una sera. Ma per questa volta me la sono dovuta far andare bene così. 

Nella prossima e ultima parte di questa parentesi vorrei invece parlare di chi ci ha aperto casa dall'altra parte del fiume Bartang e di come siamo miracolosamente tornati a Dushambe contrattando un taxi condiviso, unico mezzo che utilizzano i locali, che in totale aveva 6 posti a sedere, con altre 8 persone, per un totale di 11 persone e 15 ore di macchina, ma si sopravvive a tutto, anche a questo















Una parentesi nel viaggio (prima parte): il rientro a Khorogh

La fine di questo viaggio, durato più di un mese nel centro dell'Asia, vuole essere l'epiteto perfetto e un'ode al mantra che da sempre mi accompagna durante questi raid ciclistici che fungono da terapia psicologica annuale.

Vorrei partire dalla fine e proseguendo a ritroso, o a salti temporali, ripercorrendo le tappe fondamentali che come sempre hanno permesso di adattarmi, più nel pensiero che nel corpo, a questa regione, che è stata centro di interesse sovietico e che tutt'oggi vive tra tensioni interne ed esterne una precaria situazione di stabilità politica, rendendola affascinante, multi culturale, dal carattere bruto ma dall'animo sensibile e vissuto di chi da sempre ha dovuto fare i conti con un ritmo storico dal sapore amaro.

Avendo il quadro della situazione sotto mano mi è più semplice adesso sviluppare un resoconto di quanto mi sono portata a casa, e scelgo quindi di raccontare la fine come naturale processo di un adattamento caratteriale alle montagne, ai deserti racchiusi in quelle montagne dell'altopiano asiatico e alla gente che vive questi spazi, immersa in un'atmosfera che conserva i sapori antichi di una civiltà rimasta all'abbandono della caduta dell'ex unione sovietica.


Anche se tornerò in seguito a parlare di come si è sviluppato il viaggio lungo la Pamir, mi sembra doveroso al fine di capire gli eventi, fare un piccolo sunto di come siamo arrivati a questo esatto momento, il momento in cui il viaggio finisce, e mi ritrovo ad accettare l'invito di una piccola escursione nei dintorni di Khorogh. 

Infatti appena finito il percorso che da Dushambe, capitale del Tajikistan, mi ha portata a Karakull, 30km dal confine Kyrgyso, dove una frontiera chiusa ha interrotto l'iniziale intento di concludere ad Osh, sono stata costretta a ripercorrere 500km a ritroso, obbligati sulla stessa strada, fino a raggiungere nuovamente Khorogh, la capitale della regione autonoma e pressappoco centro della Pamir Highway che da Dushambe porta ad Osh.

In questa meravigliosa ed efficace cartina semplificata con l'evidenziatore si mostra la strada di cui sto parlando






Chi è abituato alle passeggiate in montagna lo sa, la strada a ritroso non è mai la stessa; intanto cambiano i punti di riferimento cardinali, sconvolgendo il nord col sud e viceversa si ripercorrono delle strade che assumono tutt'altro sapore a seconda dell'intensità luminosa che li investe, e allora quelle cornici montuose assumono forme nuove e colori differenti; i prati dove si è trovato riparo qualche notte prima possono assumere una nuova struttura in base alle condizioni atmosferiche, e ciò che magari sembrava sicuro adesso viene visto con la consapevolezza di ciò che si è attraversato e può confermare o meno la sensazione di comfort che si è provato a dormire in tenda; ma tra le molteplici differenze che si possono trovare ripercorrendo una strada a ritroso ce n'è una che si avverte più forte delle altre, ed è la conoscenza della struttura stradale, e quindi dei rilievi del terreno, per poter dosare gli sforzi in base alle salite e le discese, la condizione del manto stradale, per cui le pause saranno dettate dalla consapevolezza che alcune difficoltà dipenderanno maggiormente da come le ruote si adattano al terreno, ma anche le persone che abbiamo incontrato lungo la via, che abbiamo salutato come se non dovessimo più incontrarle e che poi torniamo a trovare come fossero amici ormai assodati.


E allora dopo aver ripercorso la strada che dal lago di Karakul porta a Khorogh, ho deciso di tornare a dormire nell'ostello che mi aveva ospitato una decina di giorni prima.

Avete presente quella sensazione di endorfine, mista adrenalina, che viene chimicamente innescata dal nostro organismo dopo uno sforzo fisico? Ecco, alla fine di un viaggio, nel momento esatto in cui percorro gli ultimi metri, tutto questo fa si che nulla al mondo in quel momento possa farmi cambiare idea sull'aver concluso il viaggio, inesorabilmente e senza alcuna ombra di dubbio oramai finito e per nessun motivo intraprendibile nuovamente.

Infatti ciò che è stato dopo Khorogh (al rientro da Karakul), verrà definito come una piccola parentesi a conclusione di una bellissima esperienza.


La struttura che ospita il piccolo ostello alla periferia di Khorogh, non è nient'altro che un bungalow, proseguo dell'abitazione di una famiglia locale. Di posti dove dormire a Khorogh ce ne sono abbastanza e anche di molto economici, essendo il centro della Pamir, lungo la strada principale che è poi l'unica strada asfaltata della città, attorno alla quale si sviluppa il centro abitato, si trovano diversi motel destinazione dei camionisti che attraversano queste montagne. Ma la decisione di prendere posto in questo preciso ostello era stata dettata dal fatto che si trovava fuori dalla città, sul cucuzzolo di un promontorio, all'interno di una struttura in legno, in un posto quasi fuori dal tempo, e trovato tramite una ricerca su un sito di viaggiatori che lo consigliavano come punto di incontro per la gente zaino in spalla, ultimo ma non per ultimo in una via che di nome fa Gagarin J., nome per altro al quale sono molto affezionata.







Ed effettivamente dopo qualche ora dal mio arrivo, me ne stavo sdraiata sulla struttura al centro del cortile, che funge da divano e tavolo da pranzo, a ripensare a tutto quanto vissuto dall'inizio, cercando di non accavallare i pensieri e di fare mente locale su come raggiungere il Kyrgystan al quale dovevo comunque arrivare per prendere il volo di rientro in Italia, nonostante i confini chiusi, quando vengo sorpresa dall'arrivo di due tipi che scendono da un'auto scaricando delle bici gravel con relative borse da viaggio.

Rimango sorpresa da come alla fine di tutto vado ad incontrare due simili, e ancora prima di presentarmi, mentre rimango fissa a guardare le procedure di scarico dell'attrezzatura, si insinua dentro di me il pensiero e la speranza che forse hanno riaperto il confine, che forse adesso il GBOA è nuovamente protocollabile, che da questo momento in poi il traffico e le frontiere saranno aperte a tutti e che quindi il destino mi ha giocato questo brutto scherzo, che se solo avessi deciso di partire qualche settimana dopo adesso avrei potuto attraversare quel fossato e concludere per come avevo impostato il tutto, e forse ancora non era troppo tardi per farlo e sarei ripartita immediatamente.

Rimango ancor più sorpresa quando uno di loro due da lontano mi saluta con un preciso gesto della mano e mi dice “Ciao”.

venerdì 2 settembre 2022

Un viaggio in punta di piedi - il Tagikistan attraverso la Pamir Highway

Non sono sicura di voler dedicare a questo viaggio più pubblicazioni di una sola (vedremo). 
E' stato agognato, è stato sognato, progettato più di tutti quelli che ho fatto, è stato un figlio, mi ha dato enormi soddisfazioni, mi ha fatto ricredere e mi ha fatto di nuovo Credere, è stato infernale ma anche il più bello, ma non so quanto ne potrò realmente parlare, perchè rileggendo i miei appunti di viaggio mi sono resa conto che questa volta non ho trovato le parole giuste per descriverlo realmente (realmente per quello che ho provato), e se una cosa non la valorizzi nel modo giusto, allora è meglio non parlarne troppo.

Parto dal titolo

e parto male, perchè esprimo un luogo comune, ma è così

Ho iniziato a viaggiare da sola e in bici molti anni fa, quando quell' entusiasmo giovanile mi faceva pensare che questa tipologia di viaggi fosse per tutti, per sempre e semplice. Ma come si dice "solo i morti e gli stupidi non cambiano mai opinione" (J.R.L.). Infatti si cambia, si cambia nel corpo, ma soprattutto nella mente e nel cuore. 
Non è per tutti, perchè bisogna volerlo, non è per sempre, perchè a volte gli anni passano male (anche se in qualche modo devo ancora ricredermi), non è semplice perchè per viverlo al meglio bisogna adattarsi anche più di quello che ci aspettiamo (e nulla è come quello che ci aspettiamo). E' una nicchia ben definita (e lo dico senza offesa, ci mancherebbe) quella che decide di non poterne fare a meno e non bisogna mai pretendere che tutti possano capire.
Alla fine di questo viaggio, incompleto a causa di risvolti politici che non mi hanno permesso di concludere secondo programma, ho dovuto affrontare (con termine ironico, perchè le cose le affrontano solo gli eroi dell'iliade) quattro giorni di scali aerei per raggiungere il mio volo di rientro in Italia, quindi contrariamente a quanto avviene di solito in questi piccoli ride, questa volta sono stata costretta a metabolizzare durante il rientro invece che a casa.
Seduta su di una scomodissima poltrona in una ristretta area dell'aeroporto riservata ai voli tra Tagikistan e Kyrgyzstan mi sono chiesta come mai questo viaggio ha avuto un peso così importante per me.

Pensiamo sempre che la nostra vita sia diversa da quella che vediamo al cinema, che leggiamo nei racconti di avventura o che abbiamo immaginato da piccoli, eppure dipende tutto da come decidiamo di tuffarci nelle cose. 
Questo viaggio fatto in compagnia, con un altro mezzo, in un altro periodo storico, in un periodo della mia vita antecedente a tutte le esperienze degli anni passati, non sarebbe sicuramente stato lo stesso

A Roma si dice "e sti cazzi?". 

Invece io ci tengo, perchè è importante capire che quando si entra nelle vite degli altri in "punta di piedi", succedono cose che potrebbero completamente sovvertire i punti di vista. 
Ho scoperto che il mezzo e la volontà cambiano il destino di un viaggio.
Non voglio togliere nulla, assolutamente nulla, a chi è interessato a fare una tipologia di viaggio che abbia altri ritmi, non è mia intenzione convincere nessuno a prendere e scappare di casa, ma mi piace far immergere chi legge nei miei stati d'animo. 
In punta di piedi ha un significato ben preciso: significa come suggerisce la frase, in maniera silenziosa, discreta e non inquinante, dove il senso di non inquinare non è attribuito all'uso di un mezzo totalmente libero da accise, ma intendo non inquinare nel senso più antropologico il pensiero altrui, e cioè farsi totalmente da parte ed essere disposti ad ascoltare le vite degli altri, dimenticando addirittura il posto dal quale veniamo.

Quando i tempi si calcolano in km e per percorrere 100km occorre una giornata, significa che quel mezzo permette di abituarsi non solo ad un clima diverso (se parliamo di altitudini vertiginose) ma permette al tuo animo, prima che al tuo fisico, di arrivare nei luoghi, non perchè ci sia la necessità turistica di essere lì, ma perchè di passaggio. E' un passaggio talmente lento che permette a chi vive in quel luogo di osservarti allo stesso modo in cui lo fai tu. (Ma che vuol dire?!) Significa che siete entrambi estranei non convenzionali (so che non mi sono spiegata ugualmente, ma è  così). I luoghi dove mi fermo non hanno mai niente di caratteristico da vedere, non hanno mausolei, tombe, statue, chiese, non hanno storia che sia testimoniata, ma quello che a me interessa è che siano luoghi abitati
Assurdo pensarlo, ma un viaggio in punta di piedi ti permette di arrivare nei luoghi non come turista, ma come attrazione di quel posto, ribaltando completamente la prospettiva. 
Ma come posso accorgermi che sta realmente succedendo questa cosa?
Bastano cinque/dieci (nel peggiore dei casi) minuti fermi in un punto, che sia il centro di un villaggio, oppure adiacenti ad un'abitazione nel mezzo del nulla, oppure ancora in bella vista in un buon punto di passaggio, per ricevere un invito a cena o per la notte.
Ma certo che ho la tenda, ma cosa mi importa di passare una notte in tenda quando posso entrare nelle vite degli altri?

Mi rendo conto di non aver detto nulla di questo viaggio, ma ritenevo che fosse un necessario interludio per capire quello che scriverò nel prossimo post



giovedì 28 aprile 2022

È possibile tornare a viaggiare nell'era del covid?

Se il primo anno è stato necessario fermarsi, quello successivo l'ho iniziato ponendomi questa domanda, mentre intanto guardavo ad altro, fantasticavo su possibili mete e difatti ho iniziato a concretizzare il pensiero.
Infine non so rispondere, ma posso dare soltanto la mia personale interpretazione: è sicuramente cambiato il modo di viaggiare, ma ho potuto constatare che per il momento si tratta solamente di sopravvivere alla burocrazia da affrontare prima, durante e dopo il viaggio.
E per me che scappo e trovo sempre modi contorti e pregni di autosadismo pur di evadere dagli oneri della burocrazia questo è stato un grosso scoglio, però se l'ho fatto io vuol dire che in qualche modo la questione può essere affrontata. 

Arrivo al punto dicendo che ho comprato il volo (partenza metà luglio e rientro metà agosto).
Prima di farlo ho dovuto inviare 18 email ai vari consolati perché i siti istituzionali italiani oltre a fornire informazioni discordanti con il resto del mondo non hanno mai risposto al mio semplice quesito: (intesa la situazione epidemiologica in atto, le guerre, gli scontri civili, le quarantene coatte etc etc etc) ma io posso andare in Tagikistan?

Ricevuta risposta dal consolato tragico (da quello italiano mai pervenuta) ho finalmente preso il volo.

Non so ancora nulla di preciso riguardo a quello che sarà il percorso a parte che si svolgerà da Dushambe (capitale del Tagikistan) a Osh (seconda città del Kyrgyzstan), anche se il volo di rientro in realtà è da Bishek (700km più a nord), quindi una passeggiata che va da ovest verso est seguendo la strafamosa Pamir Highway o M41, romanticamente parte della via della seta attraversata da Marco Polo, ma so che fondamentale per la scelta di questa passeggiata è stato il "corridoio naturale della valle del Wakhan". 

Cos'è e come si raggiunge?

C'è da dire che nella vita ci sono poche certezze, ma una di queste è che quando su internet girano poche notizie, allora è sicuro che quello è il posto giusto dove andare, o meglio dove perdersi prima che diventi troppo famoso e rovini inevitabilmente il suo valore sociale.
Incastonata tra Tagikistan (a sud-est) e Afghanistan (a nord-est) è geograficamente un corridoio naturale attraversato dal fiume Amu Darya, circondata da montagne, che seguono le catene più alte del mondo, e alla fine della quale si trova un valico per arrivare in Pakistan: praticamente una notevole esplosione di culture. Si raggiunge da Khorog effettuando una deviazione dalla M41 per poi ricongiungersi non poco distante da Alichur (città (?) famosa per aver registrato il record della minor temperatura tra le città abitate nel mondo, durante l'inverno -60°, in estate -5°, tocca vestirsi pesanti) e nella quale si tiene un particolarissimo festival il 13 agosto (spero di esserci). Si tratta in realtà di due strade che corrono parallele e sono separate da questo fiume, una strada appartiene ai confini tagichi e l'altra a quelli afgani, in alcuni punti il fiume raggiunge una larghezza non superiore ai 3 metri per cui è possibile salutare (almeno così riportano varie testimonianze) gli abitanti di uno o l'altro stato.
La domanda potrebbe sorgere spontanea e non è poi troppo scontata: ma è sicuro viaggiare perimetralmente ai confini afgani?
Ho scoperto che non solo è sicuro (inteso che alla sicurezza ognuno da un valore secondo una propria scala personale), ma anche che ottenere un visto turistico afgano è molto semplice e veloce nonostante quello che si potrebbe immaginare guardando all'attuale situazione politica, ma in ogni caso non è mia intenzione attraversarla dal versante afgano per il semplice motivo che il visto costa più o meno 150 euro (200 per i cittadini americani) + il secondo visto per il rientro in Tagikistan oltre il visto che serve per percorrere la Pamir (GBAO) e che immagino i paesaggi siano gli stessi e ce li faremo andare bene. Nelle diverse letture effettuate in rete (se state valutando di andare cercate solamente i risultati in lingua inglese, pochi italiani sono andati e non si trovano notizie esaustive riguardo le questioni burocratiche) ho scoperto anche che il sabato nella città di Khorog viene aperto un corridoio temporaneo per i cittadini afgani per permettere loro di allestire un mercato all'interno del Tagikistan, nel quale sono presenti anche componenti del Pakistan e forse (ma non so dopo la pandemia) anche cinesi, il tutto avviene entro aree delimitate militarmente e controllate, quindi cercherò di non perdere l'occasione che mi incuriosisce non poco. 

Parliamo di una valle che prima di tutto si trova sconnessa proprio per la mancanza di strade asfaltate, si parla solamente di vie sterrate poste a 3.000m di altezza o comunque difficilmente praticabili senza un fuoristrada (non sono previsti mezzi pubblici che le attraversano), lungo la quale hanno sede pochi villaggi fuori dal mondo, che hanno addirittura sviluppato una lingua loro e che poco hanno a che vedere con la politica se non prettamente dal punto di vista geografico, che svolgono una vita rurale e nomade, e quindi in parole povere: questo è stato il punto decisivo alla ferma scelta di ricominciare a viaggiare proprio da qui.

Ricapitolando: si parte da Dushambe, si percorre la M41 fino a Khorog, si prosegue per la Wakhan Valley, si torna sulla M41 fino a Osh, se avanza tempo si continua fino a Bishek per prendere il volo. 
Si vede che sono diventata una persona matura? E' la prima volta che ho un pseudo programma del viaggio addirittura prima di atterrare! O è quello, oppure è stato il covid!

A parte gli scherzi, il Tagikistan è un'area dell'ex unione sovietica che ha conquistato la sua indipendenza negli anni 90, purtroppo o per fortuna (rispetto i diversi punti di vista) mantiene un elevato rigore militare, per cui, nonostante per l'Italia non sia previsto un visto di ingresso, è necessario ottenere un permesso per attraversare l'autostrada del Pamir, lungo la quale si trovano numerosi posti di blocco soggetti a controllo, il confine con il Kirghikistan è aperto per ragioni turistiche, ma non è possibile attraversarlo a piedi. Il Tagikistan registra diverse manifestazioni di estremismo islamico per cui è consigliabile evitare hotspot turistici o centri affollati. Ad oggi le restrizioni dovute al covid sono decadute e per entrare in entrambi gli stati è necessario effettuare un tampone molecolare entro le 72h prima a dimostrazione della non positività al virus.

NB.: googlemaps non mi fa ricongiungere dall'ultimo paese della Wakhan Valley alla M41, in realtà esiste una strada che forse lui non riconosce come strada, vedremo di dargli torto



martedì 22 ottobre 2019

Lettere dal futuro / Untitled Mongolia

Alla cara me, quella che sarà lontana 9.000 km da ora


Ancora qualche mese e poi saremo di nuovo li, dove le emozioni prendono il sopravvento, dove sarà necessario dosare qualsiasi cosa, oltre i respiri, ogni pensiero.
Ho bisogno di ritrovarmi in un nuovo progetto, sempre diverso, con l'unica eccezione di mantenere la costante di ogni mio viaggio: essere lontani dal presente.
Un esperimento, anche questa volta, che indaga sugli effetti delle emozioni più viscerali; insomma, guardo al futuro e mi vedo di nuovo fuori dal mondo, in mezzo a quello che per molti è il nulla, per alcuni è il nulla fondamentale; fuori dal mondo, nel mezzo di una terra straniera.

Ho ricevuto un cartaceo della Mongolia, l'avevo chiesto a due amici in viaggio questa estate. Adoro le carte stampate, sono come obiettivi non memorizzati in un monitor, hanno consistenza solida, le scorro con la mano e mi fermo in un punto, qualcosa che mi rende curiosa. La felicità di esplorare un limite, renderlo proprio, oppure capire che non è ancora il momento, gli esperimenti servono a questo.
Raccolgo informazioni, spesso insufficienti, e non capisco ancora se si tratta di un superficiale carattere della mia personalità, oppure è voglia di non precludersi nulla.
Mi sorprendo ancora di come possa essere tutto relativo, pareri contrastanti che riflettono il modo in cui vediamo il mondo e l'unica via per scoprire il nostro punto di vista rimane sempre e comunque quello di trovarsi li in mezzo, dove ora vedo tracciate delle linee che sono piste, che forse esistono, forse sono state cancellate dal tempo, dal vento, dalle piogge.

Inizio a progettare, che per me significa tassellare dei nomi, prima solamente lettere confuse, in un quadro più preciso, quanto meno più razionale, intanto capire dove si trova quel nulla che per il momento è formato dalle lettere GOBI

venerdì 21 settembre 2018

Scappo di casa e mi perdo in Kashmir - Capitolo III - l'età di mezzo

Il silenzio usato come sostantivo, a differenza di quello che possiamo immaginare, è una parola che deriva dal latino Silentium silere, ovvero tacere, non far rumore, in senso figurato l'astensione dalla parola o dal dialogo.
Uno di quegli studi, inutili ma divertenti, anche se un pò sessisti, condotti da qualche università inglese o americana sostiene che in media pronunciamo 2.250 parole al giorno e se pensate al valore di questo numero e lo paragonate a quello che potevate immaginare è molto più grande di quello che uno si aspetta.

Quando viaggio non guardo spesso le foto dei giorni precedenti, ma a volte capita, quindi guardo le foto e penso: è davvero scontato il fatto che io mi trovi qua? Davvero, quanto scontato può essere? Migliaia di persone hanno sicuramente fatto quello che ho fatto nei miei viaggi e che farò in futuro, ma i miei genitori no. No, è vero, erano altri tempi, erano alte storie, ma io non appartengo al loro tempo, i figli dei miei amici probabilmente andranno in altre direzioni ancora, è il tempo che passa, le generazioni che cambiano, ma io sento di appartenere appieno a questa di generazione; lo spaesamento, il non avere radici, il costante equilibrio sul bordo di un baratro, il presente è oggi, domani chissà.

Constatato che il mio mp3 era oramai totalmente andato, non dopo pochi tentativi di rianimarlo, mi ero rassegnata all'idea che non solo avrei avuto a che fare con il silentium, che comunque è una costante dei miei viaggi in solitaria, ma allo stesso modo non avrei avuto possibilità di ascoltare altri rumori (nell'accezione di noises) che quelli della roccia che si sgretola, dell'acqua che scorre, del vento che leviga la faccia, delle ruote che schiacciano frammenti polverosi dell'unica strada possibile che avevo davanti per arrivare in quel posto che non so perchè mi ero fissata doveva essere uno dei punti da visitare assolutamente, non per la qualità della vista o per qualcosa in particolare, ma solamente perchè era vietato andare li e io dovevo assolutamente mettere piede in Cina.

Quando il mio cervello associa la parola strada e deserto in una frase che contempla il verbo attraversare succede che i miei occhi si illuminano come se quello fosse il mio unico scopo nella vita.

Succede che purtroppo in alcuni casi, quando vai in posti del genere, la burocrazia di mescola all'avventura rendendo il tutto un pò meno divertente di quello che ti aspettavi.
Per accedere a questa famosa zona proibita mi veniva richiesto l'Inner permitt, ovvero un foglietto di carta con un timbro della questura del Kashmir che accerti il fatto che tu stia andando in quei posti solamente a scopo turistico e che tu faccia parte di un gruppo di due o più persone; l'unico modo per ottenerlo è presentarsi di persona agli uffici, o tramite qualche agenzia, che si trovano però solamente nel capoluogo della regione, ovvero a Leh.
Un ulteriore problema è che viaggiando in bicicletta per me una deviazione di 200km equivale a due giorni di viaggio (+ 5.000m di dislivello) buttati al vento per avere uno stupido foglio timbrato, e quando due giorni si sottraggono a 20 te ne rimangono davvero pochi.

Con l'unica valvola di sfogo a disposizione (il mio mp3) oramai definitivamente defunto la cosa che più mi preoccupava era quella che i pensieri potessero diventare davvero pericolosi (io l'ho sempre pensato che il silenzio è l'arma più pericolosa del mondo). L'ultima cosa di cui ho bisogno in una situazione al limite del possibile è pensare a fatti negativi, alla fine avevo deciso appunto di partire anche per lasciarmi alle spalle un passato bello pesante da estirpare alla radice, non avrebbe avuto senso rimurginare (ancora!!!) sugli errori degli ultimi anni.
Forse per questo ho cominciato a tenere impegnata la mente con il mio nuovo passatempo: pensare a come eludere la frontiera.

Dopo quasi una settimana di vagabondaggio in mezzo alle montagne avevo più o meno intuito dove potessero nascondersi i posti di blocco.
Ogni posto di blocco è formato da una guardiola, all'interno un soldato con annesso fucile, una corda con delle bandierine fa da transenna, questi posti di blocco si trovano solitamente all'ingresso di vallate, in modo che tu non abbia possibilità altra che passare di la perchè ai lati della guardiola non c'è possibilità di passaggio, solamente strade a tornanti ... per chi ha un mezzo gommato ... per chi ha una bici e non ha paura di trascinarsela arrampicandosi tra i tornanti è tutta un'altra storia.
Mi rendo conto che passo da momenti di totale euforia a momenti di pessimismo esistenziale, solo che in alcuni casi il fatto di essere troppo positiva non mi fa rendere bene conto di cosa sto per fare, per cui mi ritrovo a volte a pensare che nell'immediato futuro mal che vada dovrò trascinare una bici arrampicandomi sui tornanti, mentre il tutto è leggermente più ostico

Attraversato il deserto tibetano che da Meroo va verso Nyoma il primo posto di blocco che incroci sta nella strategica posizione a ridosso di un fiume. Nella vita di tutti i giorni eviterei volentieri di immergermi in un fiume ghiacciato, ma quella non era la vita di tutti i giorni, oramai avevo preso consapevolezza del fatto che il momento era quello e mi sarei tolta la fissazione dalla mente una volta chiuso il cerchio delle cose da fare una sola volta nella vita, o almeno nell'arco di una giornata.

A Meroo decido di prendermi una bella pausa di riflessione giusto per accertarmi che quello che volevo fare era in realtà la cosa che più desideravo in quel momento.
Non credo nei segni del destino, nelle cose che piovono dal cielo, nelle frasi tra le righe, più di una persona mi ha detto che per me le cose o sono bianche o sono nere e se te lo dice più di una persona devi ammettere che una verità ci deve essere, ma ripeto, forse ci sono situazioni in cui bisogna credere a tutto, anche a quello che di norma non accetti.
Ordinato il mio solito thè con momo, "l'uomo della tenda" prende posto a sedere di fianco a me mentre io fissavo in modo alienato il bivio: da una parte una diretta per Leh, dall'altra parte il deserto tibetano verso una frontiera che forse non sarei mai riuscita ad attraversare, dentro di me un silenzioso scontro tra titani.
- It's really a good day - noto che al contrario di me ha voglia di parlare - No clouds, no wind, nothing - continua mentre io con la coda dell'occhio lo osservo - Where are you going?
- I really don't know, i'm waiting for something, but i don't know what exactly
- It's a common low, you think it could be simply in your way, but it takes other directons - il tipo dagli occhi di catrame riesce finalmente ad attirare la mia attenzione, mi chiede una sigaretta e comincio a girargliela
- Probably, but we can't do nothing to change the rules 
- You can always do something that maybe yesterday it was not in your mind
comincio a pensare che forse faccio male, ma sto leggendo tra le righe la risposta alla mia domanda
- I can't remeber about yesterday - rispondo ridendo
- Really good, we need to go in opposition with our rules to be stronger, for example, you are totally alone now, far from home, what it was yesterday in this moment it makes no sense anymore, you can do everything, nobody can judge you
E' alto, la pelle scura bruciata dal vento, occhi a mandorla piccoli e sottili, neri come la pece, i capelli lisci legati sopra la nuca, può avere cinquanta anni, ne può avere anche sessanta, è difficile distinguere l'età di chi è cresciuto sotto il sole, vive e veste le stesse cose probabilmente da anni, che cosa ci fa esattamente li?
- How many people have crossed this road? - guardo in direzione di Nyoma, e non so per quale motivo gli chiedo questa cosa, la chiedo e basta
- Not so much, military only, and sometimes someone like you, looking for adventure

in quel momento avevo preso la mia decisione, che io creda o meno ai segni del destino poco importa, perchè credo molto negli incontri.
Prima di andar via mi chiede come mi chiamo
- Alessandra! - glielo grido da lontano. Non so se si ricorderà di me nei prossimi anni, io di lui mi ricorderò per tanto tempo


La Meroo - Nyoma è una strada totalmente deserta, non c'è niente da vedere, è stata ideata come scorciatoia per i militari che da Manali vanno verso la Cina, nessuno ha motivo per passare di la, nessuno tranne una ragazza in bici intenzionata ad attraversare una strada solo per il gusto di farlo, perchè in quel momento era giusto così e doveva essere fatto.


Come ogni anno potrei spendere 5.000 e più parole per elogiare la bellezza dei luoghi desertici, ma come ogni anno non ne sono in grado, quindi non lo faccio, vi invito piuttosto a leggere i post che dal 2015 scrivo sui deserti che bazzico.






Quello che conta è che a quella dogana ci sono arrivata veramente e veramente ho pensato di poter essere in grado di scavalcarla, così ci ho provato.

Il confine è totalmente militarizzato, ma se il compito era trovare la falla del sistema in qualche modo ci sono riuscita.





La notte appartiene agli amanti, alla lussuria, a noi - a detta di Patti Smith, io aggiungerei che appartiene anche ai ladri di sogni. La notte permette di fare quello che a volte di giorno ci intimidisce, la notte permette di sminuire le inibizioni, la notte è per chi pensa che un gesto debba restare nascosto, la notte è fatta per scavalcare le frontiere.
Immergersi in un fiume ghiacciato, scavalcare la frontiera di Nyoma, totalmente al buio, sapendo che comunque non avrei potuto fare il giro che il mio tracciato preliminare prevedeva solo per il gusto di mettere piede nella zona proibita è davvero da incoscienti e mi vergogno pure a scriverlo, però in quel momento volevo che il mio pensiero superficiale avesse la meglio e così è andata.
In fondo per questo viaggio mi ero data solamente una regola: fare tutto quello che vuoi fare, nella totale libertà, sentendoti responsabile di te e nessun altro.

Dopo aver giocato a scavalca le frontiere, decido che è il momento di dirigermi verso Leh.

Tornando quindi indietro, questa volta per la strada principale, mi rendo conto che non ho più bisogno della musica per non diventare pazza, mi basta pensare che ho fatto abbastanza cose per permettermi il lusso di rilassarmi un attimo, anche se davanti a me c'è uno dei passi camionabili più alti del mondo, ma tanto nemmeno lo sapevo, come sempre ho pensato che la strada era una e che quindi era inutile star li ad interrogarmi su quanti metri bisognava salire su.


Il giorno seguente, oramai lontana da tutto quello che era stato qualche ora prima (viaggiare così è bello proprio perchè le cose hanno due metri e due misure: una è quella dei km e una è quella delle ore. A volte le cose vengono calcolate in ore a volte in km, provare per credere), mentre in tutta tranquillità salivo i 27 tornanti (si li ho contati) che sulla Keylong-Leh portavano a uno dei passi principali (Nakeela), mi affaccio a guardare dall'alto la vallata con la strada a curve che avevo appena fatto.
Tra la sensazione di vertigine dovuta forse alla stanchezza, forse all'altitudine, mi accorgo di un piccolo puntino nero che su due ruote sta percorrendo quei tornanti. Incuriosita, ma anche molto felice di aver trovato un mio simile, decido di aspettarlo, perchè no, in fondo non c'erano dei programmi precisi per i km a seguire.
Mylon è un ragazzo di 25 anni del Bangladesh che assieme ai suoi due compagni di avventura (ci ho messo un paio di ore a capire che erano in 3 e un altro paio a distinguerli, visto che erano vestiti uguali e avevano le stesse bici) stava per chiudere un viaggio di 65 giorni da casa a Leh. La gioia nel suo sguardo a riconoscere di avere pochi km davanti per chiudere un sogno progettato per un intero anno era qualcosa di spettacolare, forse anche più bello del paesaggio circostante. Siamo fatti di sensazioni, oltre che di carne, ed essere circondati da persone che esprimono emozioni vere non capita tutti i giorni.
Ci stringiamo le mani, una stretta di mani tra pari è sempre una bella cosa, in quel momento mi sento ambasciatrice del mio paese, ma allo stesso tempo non mi sento di appartenere a nessuna nazionalità, siamo semplicemente due persone che stanno facendo la stessa cosa e che per cultura non hanno nulla in comune, ma in qualche modo siamo uguali.


E' un ragazzo che un pò invidio, mi racconta del viaggio che hanno appena fatto, e io continuo a pensare che il mio tempo è sempre poco, vorrei tornare indietro a quando studiavo e non avere tutta questa fretta di crescere. Lo ascolto con attenzione e mi rendo conto che non parlo con qualcuno da molto tempo, sono felice di stare con lui e i due suoi amici, ma allo stesso tempo sento il bisogno di isolarmi ancora, quel silenzio era diventato una droga, oramai sentivo di essere una tossica.
Ci fermiamo a mangiare assieme in una di quelle tende che tanto ho amato, è una fortuna quando incontri gente che parla la lingua del posto, perchè finalmente riesco ad ordinare qualcosa di diverso dai momo, continuiamo per qualche ora, poi si rendono conto di essere provati dalla salita e dall'esserci sfondati metà delle provviste di quella bettola e mi propongono di piantare la tenda lì.
Non so perchè ho deciso di continuare senza di loro.
E' stato bello parlare per tutto quel tempo, ma avevo bisogno di stare ancora da sola con me stessa. Invento una scusa a caso, devo proseguire perchè ho poco tempo e non sono stanca e so di una vallata dopo il passo che è spettacolare e voglio vedere l'alba da lì etc etc ... mi guardano come se fossi completamente pazza, e forse un pò devo dargli ragione, ma dovevo andare.
- Maybe see you tomorrow, or maybe never again - quante volte ho detto questa frase, non c'è stata una volta che poi davvero ci siamo visti il giorno dopo, eppure mi ricordo di tutte quelle facce a cui l'ho detto, mi ricordo di tutti i loro sorrisi, mi ricordo come se fosse ieri i paesaggi, la temperatura, se avevo o meno i guanti, quando invece stento a ricordare cosa ho fatto il giorno prima quando mi trovo a casa.

A quel passo (Tangangla) ci arrivo con una piena consapevolezza di chi ero io in quel momento, avevo capito che il mio viaggio come ricerca si poteva dichiarare concluso nell'istante in cui ho piantato la tenda, ho guardato a 360° le montagne intorno e ho pensato: adesso sei esattamente nel posto in cui volevi essere.


Certe sensazioni non si possono descrivere, sono attimi di felicità; chi ha la fortuna di provarli riesce a ricordare la stessa sensazione che aveva da piccolissimo: quella volta che sei riuscita a scappare dalla morsa di mamma per infilare le mani nella fontana ghiacciata e hai provato la sensazione di bruciore ma anche di conquista, la prima volta che sei riuscita ad arrampicarti in cima ad un albero e guardando giù facevi una smorfia ai bambini increduli, quella volta che ti sei svegliata e hai trovato un cane in cucina e ti hanno detto che era tuo, la prima volta che hai sentito il cuore battere per qualcuno, la prima volta che hai detto a qualcuno quello che davvero provavi sentendoti totalmente libero. Sono tutte delle cose che con l'età diventano più rare, perchè siamo noi a diventare più complessi; ecco, viaggiare è quel mezzo che ti permette di tornare bambino, anche solo per un istante, ma quell'istante diventa un ricordo indelebile e noi in fondo non siamo altro che ricordi.

Italian Coast to Coast from Roma to Pescara

"In natura un contorno non esiste, dunque la forma disegnata dall'artista non è un elemento realistico, ma una sorta di spettro"

G. De Chirico

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